lunedì 23 ottobre 2023

Anna Tifu e Giuseppe Andaloro inaugurano la stagione della Filarmonica Laudamo

 



Suonano bene, anzi, benissimo, Anna Tifu e Giuseppe Andaloro. Il duo (violino e pianoforte) ha inaugurato nel migliore dei modi la centotreesima stagione della Filarmonica Laudamo di Messina in un gremito auditorium del Palacultura Antonello. È bello essere semplici e diretti, quando è possibile, anche vestendo i panni del critico musicale. Suonano benissimo, punto. E lo fanno in un programma accattivante, che prevedeva la Sonata n. 2 in sol maggiore e “Tzigane. Rhapsodie de concert” di Maurice Ravel, nella prima parte, e la Fantasia in do magg. op. 131 di Robert Schumann e la “Carmen Fantasy” op. 25 di Pablo De Sarasate, nella seconda. Scendendo nel dettaglio, quello che ha colpito maggiormente, nella esecuzione di Tifu e Andoloro, è un grande rispetto del dettato stilistico di brani dal grande contenuto artistico e culturale. Un rispetto assecondato dalla realizzazione pertinente di lussureggianti sonorità in Ravel, pur non prive di autentiche perle in termini di delicatezza sonora e sottolineatura delle notevoli incursioni nella dilatazione delle possibilità armoniche e della forma messe in campo dal compositore francese, e nell’approccio esegetico appassionato e sapientemente variegato, in termini soprattutto agogici, nella fantasia schumanniana. In quest’ultima, in particolare, sono emerse le doti interpretative della Tifu, assolutamente a suo agio con un’espressività ipertrofica e onnipresente nello spartito del Maestro di Zwickau. Il tutto assecondato dalla maestria di Andaloro, che dosa virtuosismo e sapienza del tocco in modo equilibrato e convincente. La fantasia sulla Carmen di De Sarasate ha svolto il suo ruolo di colto divertissement finale, con i due splendidi musicisti impegnati a restituirne in modo efficace nuances, enfasi ritmica, esaltazione del melos e puntualità esecutiva nella scrittura tecnica più elaborata.
Applausi convinti dalla platea, al termine, e ripetute richieste di bis, accontentate con una rarefatta e sognante esecuzione della “Meditation” da “Thaïs” di Jules Massenet.

mercoledì 30 agosto 2023

Verità e Potere

 

"È forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole? […] la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità?"— H. Arendt, Verità e politica, p. 30

Basterebbero queste poche, lapidarie parole di Hanna Arendt a spazzare via pennivendoli, cortigiani, sacerdoti professionisti o improvvisati del politically correct. 

Almeno, così credo.

Il punto è che purtroppo, oggi, non è così. 

"Fiat veritas et pereat mundus": (sia detta la verità anche a scapito del mondo). La citazione latina è ripresa e commentata dalla stessa Arendt. Essa sottolinea, come ricordavo qualche giorno fa, la sostanziale differenza ontologica tra Verità e Potere. 

Dimenticarla è grave, sempre. Oggi più che mai. 

La direzione corrente, incoraggiata e sospinta dalla narrazione mediatica dominante è invece quella di una verità che DEVE coincidere con l'informazione. Chi non ci crede è un rettiliano, un minus habens, un no-qualcosa. E ciò a dispetto del fatto, come altre volte ho detto qui e altrove, che la filosofia occidentale ci insegna che ciò che appare non è la Verità. Ci affanniamo a spiegare Platone e il mito della caverna e la dialettica hegeliana, tanto per dirne una, salvo poi a leggere qua e là difese ad oltranza del fenomeno e del noto, senza alcun riguardo per noumeno e conosciuto. Anzi il fenomeno e il noto fanno figo, cosa vai a pensare?


E di esempi ne potremmo fare molti, moltissimi altri. Che so... Il cinema di inchiesta italiano a cavallo tra gli anni '60 e '70. Elio Petri, Florestano Vancini, lo stesso Francesco Rosi. Oggi, come verrebbero valutati? Eppure, grazie al Cielo, ci sono stati...

Non lo so...

Non ne usciremo facilmente, ammesso che se ne possa uscire.

domenica 9 aprile 2023

DEL PROGRESSISTA MEDIO



È abbastanza interessante analizzare cosa porta quello che mi piace definire il progressista medio (uso il termine progressismo, qua, in una veste critica e degenerativa, diciamo così, a fronte di un valore originario positivo a cui rimango fedelmente legato); cosa lo porta, dicevo, ad innamorarsi di alcuni personaggi pubblici, consegnandosi giulivamente e quasi acriticamente alle loro posizioni. Non è un’operazione entusiasmante, certo, ma interessante sì.
Si potrebbe dire molto ed è impossibile essere esaustivi (ammesso che io ne abbia la capacità) specie se lo si fa in poche righe. Forse, però, si può suggerire qualche spunto.
Ci provo, riprendendo anche alcuni temi trattati in un mio libro due anni fa.

Tendo a pensare che esista, oggi, qualcosa di abbastanza radicato nell’autopercezione del progressista medio. Una percezione che lo porta a ritenersi appartenente ad una genìa elevata, il cui compito è prendere le distanze, quando non bastonare, i minus habens, i trogloditi, e così via. Comprensibile, per carità, e a volte anche legittimato da posizioni oggettivamente indifendibili della controparte di turno. Tuttavia, negli anni abbiamo assistito ad una trasformazione di tale tipologia. Un tempo, infatti (diciamo sino a trent’anni fa) tali soggetti non esitavano ad andare controcorrente; anzi, era quasi sempre così. Le masse si bevevano la prima narrazione e toccava a chi aveva – in via presunta - più strumenti critici andare oltre e smascherare l’ipocrisia, la superficie, le posizioni ufficiali. La trasformazione cui accennavo, invece, ha rovesciato la situazione: chi sa (chi dovrebbe sapere), chi capisce (chi dovrebbe capire), accetta il già detto e l’autorità, prendendo ironicamente, quando non violentemente, le distanze da chi non lo fa. Ne è un esempio il debunking selvaggio, che nella caccia al bufalaro ha assunto toni ancora più grotteschi del bufalaro vero e proprio. Ma ne è un esempio, in tal senso, anche l’usanza di blastare i webeti. Due neologismi molto tristi. Per chi non lo sapesse, significa distruggere, umiliare con sarcasmo, insultare i presunti ebeti del web. Ci sono alcuni personaggi che di questa hanno fatto quasi la loro attività principale. Peccato che ad essere oggetto del loro blasting non sono solo i presunti webeti, ma anche medici, giornalisti, filosofi, scienziati. Tutti, insomma; basta che siano contrari a ciò che essi sostengono.

La cosa veramente triste però - e torno all’inizio del post – è che questo tipo di personaggi incontra anche un certo favore. Specie in quelli che, non riconoscendosi appunto nei ‘trogloditi,’ vedono nei personaggi in questione qualcuno che incarna il loro bisogno, più o meno consapevole, di sentirsi una elité; di appartenere ad una razza elevata, superiore, per casta o censo (o semplicemente perché fa figo) che nulla ha a che fare con gli ignoranti. Con gli ignoranti e con il ‘popolino’ non c’è speranza, pensano. E si consegnano al tecnico, all’esperto, specie se fresco di parrucchiere, ben vestito, con i tempi televisivi giusti; e, soprattutto, dalla parte della narrazione dominante, della quale è spesso un convinto cantore ed apologeta. Perché è questo il cuore della questione: il sapere, nel dibattito civile, non sembra più essere al servizio della ricerca della verità oltre l’apparenza ma della legittimazione di quest’ultima. Chi non ci sta è un terrapiattista, uno sciechimista, un novaxista, un cisonoipoteriforti, e così via. Certo, già detto tante volte, le menti fragili che vedono streghe dappertutto ci sono (anzi, la loro presenza è spesso funzionale a dare ulteriore forza alla narrazione dominante). Ma dentro questi facili e preconfezionati calderoni si finisce per mettere anche chi fragile non lo è affatto, anzi.

Potremmo continuare, e a lungo. Mi fermo qua. Mi limito a concludere citando Pasolini. Lui aveva compreso (ed eravamo ancora ‘solo’ nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta) che la mutazione antropologica degli italiani, consistente nella graduale perdita di una purezza arcaica della cultura popolare, stava creando una classe e una cultura media corrotta e corruttrice. Direi che oggi, probabilmente, abbiamo a che fare con l’ultimo prodotto di quella mutazione.

martedì 3 gennaio 2023

Ciao Nicola...

 








Dolcissimo amico mio, oggi mi lasci e ti porti via una parte della mia vita. Una parte importante, decisiva per quello che, nel bene e nel male, sono diventato. Siamo cresciuti insieme, accomunati da una passione smisurata per la musica e per il pianoforte. Abbiamo trascorso migliaia di ore a suonare, studiare, ascoltare, imprecare, desiderare il suono in tutte le sue forme. Lo abbiamo fatto seduti allo sgabello davanti a ottantotto tasti - magari improvvisando sui due pianoforti della tua casa che dava sul lago di Ganzirri, oppure aspettando di fare lezione in conservatorio, col maestro Trovato - ma anche bevendo whisky e fumando le nostre prime sigarette, spendendo la paghetta che ci davano i nostri genitori ma anche i  primi soldi lavorati dando lezioni private... Consumando ascolti di vinili a non finire, graffiandoli, risentendoli centinaia di volte. E poi commentandoli sino allo sfinimento. Così come commentavamo i concerti alla Sala Laudamo, al Vittorio, al Teatro in Fiera... A volte concordi, qualche volta no. Tu che apprezzavi di più la perfezione tecnica, io a sottolineare maggiormente la profondità interpretativa... Discussioni convulse e preziose, ripetute anche durante i viaggi per partecipare a rassegne e concorsi. Noi, che credevamo nel potere immenso dell'arte e disprezzavamo le pochezze e le miserie umane, dall'alto del nostro sentirci umili, da un lato, ma anche coscienti di seguire ideali altissimi, in parte  irraggiungibili, di profondità e perfezione artistica. Il tuo talento straordinario, le tue dita prodigiose, la tua portentosa intelligenza musicale sono state per me un modello costante di emulazione e ammirazione. Non posso - e non voglio - dimenticarti, stella luminosa. Ogni volta che toccherò il tasto di un pianoforte sarai accanto a me... E quando finirò di suonare sarai il primo cui chiederò com'è andata, se potevo fare meglio, se c'è qualcosa da sistemare. Siamo tutti nati per l'Eterno, amico mio, ce lo siamo detti tante volte. Non dimenticarlo proprio adesso...

domenica 8 maggio 2022

Impressioni su Ennio

 


Durante la visione dell'ottimo docufilm "Ennio" di Giuseppe Tornatore, ma soprattutto al termine di essa, mi accompagnano tre cose:

- Il tremore delle labbra di Morricone quando - e capita spesso - racconta momenti particolarmente significativi della sua vita, professionale e non. Un tremore senile, diranno i più cinici. Forse, ma non solo; il tremore di chi la musica la vive da dentro e di chi sente il suono come un prolungamento del pensiero e del sentimento.

- Il travaglio di un compositore che ha saputo convivere con l'ostracismo dell'accademia e dell'intellighenzia compositiva nazionale e internazionale, che, negli anni '60-'70, lo accusava di prostituire il suo talento per un genere musicale minore, quando non esclusivamente commerciale. Un travaglio vincente, perché Morricone è stato, anzi, un artefice e un esempio luminoso di quella contaminazione tra generi e della ricerca di una immediatezza espressiva che oggi vengono quasi unanimemente riconosciute come le caratteristiche principali della musica contemporanea. Con buona pace di chi ancora intende percorrere una direzione ostinata e contraria.
Emblema di tale tematica è il rapporto col maestro Goffredo Petrassi, cui Tornatore dedica giustamente un certo spazio, ma anche con i colleghi che accompagnarono Morricone nei sui esordi sperimentali, come Boris Porena.

- La capacità - che chi ama le sue musiche conosce bene - di un grande artigiano dell'emozione in immagine. Perché se è vero che le colonne sonore di Morricone, per sua stessa ammissione, possono vivere autonomamente, sganciate dal film per cui sono state composte, è indubbio come esse siano sapientemente legate al vissuto dei protagonisti, e alla espressività della trama e delle vicende narrate, in modo magistrale.

Emozione, travaglio, espressività. Tre elementi fusi armonicamente in un marchio di fabbrica che ha segnato la Storia della musica per cinema in modo indelebile.


domenica 20 giugno 2021

La musica oltre il muro

 

È una poetica della speranza quella che caratterizza “Il muro” di Giuseppe Delle Vergini, recentemente pubblicato per i tipi di Pathos Edizioni. Un romanzo delicato, scritto con garbo e rispetto per un tema complesso come quello della convivenza tra ebrei e palestinesi in Terrasanta. Convivenza difficile, com’è noto, lastricata di odio, guerre, sangue. Ma il messaggio dello scrittore toscano è chiaro: bisogna provarci, sempre e comunque. 
 E ci provano, Ilda e Omar, i due protagonisti della storia. Lo fanno con la genuinità e con un comune sentire offerto loro dalla musica. È grazie ad essa che un’anziana musicista italiana di origine ebraica (sopravvissuta ai campi di sterminio) e un ragazzino palestinese riescono a piantare semi di speranza nelle loro vite. Speranza costretta a fare i conti con un muro: quello eretto a Gerusalemme (dove i due vivono) per separare ebrei e palestinesi. Ilda incontra per caso il giovanissimo flautista e ne intuisce subito la sensibilità e il talento musicale, offrendogli la possibilità di dargli gratuitamente delle lezioni Capisce, anche, che la musica può essere per lui un’ancora di salvezza; un mezzo per darsi un futuro migliore di quello, drammatico, che vive con la sua famiglia. In mezzo ad attentati, sirene e posti di blocco, Ilda e Omar costruiscono le loro oasi di pace e condivisione, durante le quali ‘suonare’ le proprie angosce e i propri tormenti, ma anche, e soprattutto, la propria voglia di dire basta all’odio e alla violenza. 
 Un libro prezioso, quindi, quello di Delle Vergini, affidato, peraltro, ad uno stile di scrittura sobrio ed elegante al tempo stesso. Prezioso come tutto ciò che contribuisce a creare spazi di riflessione su ogni tipo di muro che separa gli esseri umani: da quelli in cemento a quelli ideologici. 
Di tali spazi, oggi più che mai, si avverte un grande bisogno.

domenica 23 maggio 2021

La Lingua madre della Corelli Jazz Band


La formazione messinese ospite della Filarmonica Laudamo  al Teatro Vittorio Emanuele


Ripartono col piede giusto i concerti dal vivo della Filarmonica Laudamo di Messina. Nell’anno in cui taglia il prestigioso traguardo delle cento stagioni, il sodalizio peloritano ha dovuto fronteggiare, come tutti gli operatori della cultura e dello spettacolo, mesi difficili di chiusure ed eventi in streaming, a causa dell’emergenza sanitaria. C’era dunque grande attesa per il concerto della “Corelli Jazz Band”, che è salita sul palco del Teatro Vittorio Emanuele (coproduttore dell’evento insieme al Conservatorio di Messina). A dirigere la compagine musicale, nata nel 2012 in seno al dipartimento di musica jazz del Conservatorio “Corelli”, le esperte mani di Giovanni Mazzarino. La band si è resa protagonista di un’ottima performance, dimostrando di muoversi perfettamente a suo agio nel repertorio proposto (brani, nell’ordine di presentazione, di Steve Swallow, Enrico Pieranunzi, Gerorge Gershwin, Gianni Basso, Giovanni Mazzarino, Richard Rodgers, Dizzy Gillespie, Victori Young, Jimmy McHugh e Jerome Kern). Anzi, l’impressione che i musicisti hanno dato è stata quella di parlare una sorta di lingua madre; e, in quanto tale, di sciorinarla con naturalezza e proprietà di linguaggio, sia stilistica che espressiva. Sembrava che non vedessero l’ora di parlarla questa lingua e di comunicare in presenza con il pubblico. Su quest’ultima impressione, confesso, non so quanto incidano le proiezioni personali dell’autore di queste brevi note e i suoi desideri di assistere finalmente a un concerto dopo tanto tempo. Sono certo, però, che si è trattato di emozioni ed aspettative condivise con il pubblico e con i responsabili della Filarmonica Laudamo, che a questa ripresa hanno dedicato uno sforzo enorme. 
Convincenti, quindi, le esecuzioni della Corelli Jazz band: trascinante nei brani in cui è lo swing a farla da padrone ma anche attenta agli equilibri sonori e alle sfumature agogiche in quelli più espressivamente delicati. Bravi tutti i musicisti, ottimamente guidati da Mazzarino (del quale è evidente il robusto lavoro di concertazione), anche se meritano una menzione speciale le due cantanti Rossella D’Andrea e Floriana Papa, che hanno messo in mostra ottima sensibilità e voce coinvolgente in due dei pezzi protagonisti della serata (“Bewitched” e “I can’t give you anithing but love”), e il sassofonista Orazio Maugeri, splendido solista in My foolish heart”. 
Applausi convinti del pubblico, al termine, e richieste, accontentate, di fuoriprogramma.

Anna Tifu e Giuseppe Andaloro inaugurano la stagione della Filarmonica Laudamo

  Suonano bene, anzi, benissimo, Anna Tifu e Giuseppe Andaloro. Il duo (violino e pianoforte) ha inaugurato nel migliore dei modi la centotr...