martedì 4 agosto 2020

Bernard-Henri Lévy e il virus che rende folli



Una recensione, ma non solo

È un libro che si legge velocemente, quello di Bernard-Henri Lévy. Un pamphlet di cento pagine,“Il virus che rende folli”, uscito un paio di settimane fa nella traduzione italiana di Anna Maria Lorusso per i tipi de “La nave di Teseo”. Cento pagine dense, figlie di un’analisi lucida e profonda: di quella profondità che ti riconcilia col mondo e ti conforta. O perlomeno, che conforta chi, come me e altri, hanno assistito con rabbia e frustrazione alla costruzione di una sanitizzazione del mondo e di una Weltanschauung esclusivamente sub specie medica.
Chiariamo subito, perché la superficialità e il riduzionismo becero sono dietro l’angolo. Lèvy non è un ‘negazionista’ (mai parola dal significato tanto terribile è stata usata in modo così superficialmente scellerato), come non lo sono io e altri che invitano all’esercizio del pensiero critico dinanzi ai nudi fatti e alla cronaca. Il filosofo, giornalista e regista francese lo dichiara già nelle prime pagine. Le misure restrittive sono state molto probabilmente necessarie, specie nella fase più delicata dell’epidemia in Europa. Non è questo il tema della discussione. Si tratta, invece, di riflettere su ciò che tali restrizioni hanno comportato sul piano sociale, psicologico e, in ultima istanza, antropologico. Un tema immenso, di un’importanza capitale, che continua a sfuggire ai più, ingabbiati nella logica dell’unico obiettivo che conta: la difesa ad oltranza dal contagio.
“Cosa può essere successo?”, si chiede Lévy? (p. 13). Di sicuro, “ …se è vero che, come amava dire, non senza ironia, il grande medico tedesco di fine Ottocento, padre dell’anatomia patologica, Rudolf Virchow, ‘un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni risvolti medici’, questo è il momento di fare i conti con esso e cercare di descrivere alcuni aspetti non medici di questa vicenda” (p. 16).
Sottolineiamo: non medici. Perché il mondo, la realtà, l’umanità non sono e non potranno mai essere solo entità mediche, salvo che non si intenda scrivere la sceneggiatura di un film distopico, o non si intenda farne parte.  
Si è trattato della ‘prima paura mondiale’, dice il filosofo francese. Una paura che ha visto l’ascesa irrefrenabile del ‘potere medico’. Di quel potere, di reminiscenza foucaultiana, che entra pervicacemente nella case e nella vita privata degli esseri umani, dettandone tempi e modi. Certo, tra i medici ci sono stati degli eroi, così come tra il personale sanitario che ha curato i malati nei momenti più duri per le strutture ospedaliere. Ad essi deve andare un caloroso ringraziamento. Ma da questo a fare – non dei medici in corsia, ma di quelli che hanno imperversato sui media – dei superuomini e “a dare loro pieni poteri, c’era un passo che poteva essere fatto solo al costo di diversi malintesi” (p. 23). Ma, aggiungo io – e qui è emersa in tutta la sua drammaticità la vacuità, l’impreparazione, la superficialità finanche di coloro i quali avrebbero dovuto avere gli strumenti per comprendere e guardare criticamente gli eventi (vedasi ad esempio una parte consistente della classe docente o una larga maggioranza di ciò che resta della Sinistra, buoni solo a dare del ‘no vax’ o del salviniano a chi provava anche solo a suscitare dubbi relativamente alla vulgata del mainstream politico-mediatico-sanitario); ma, dicevo, una visione scientista che forse sarebbe risultata inveterata anche al più incallito dei positivisti ha preso saldamente le redini delle coscienze. Laddove invece, i medici stessi, quelli veri “sanno, come Bachelard, che la ‘verità scientifica’ che noi gli supplichiamo di darci non è mai altro che un ‘errore rettificato’.
E qui Lévy, ripeto, tocca un punto fondamentale. Un punto che riguarda la quasi assoluta impreparazione e carenza di formazione epistemologica sia di molti scienziati sia di chi, sulla carta, dovrebbe avere gli strumenti per interpretare i dati della scienza e, possibilmente, declinarli in modo sensato verso chi tali strumenti non ce li ha o non li ha ancora; come, appunto gli studenti, anche se qui il mio insistere è frutto di una deformazione professionale che l’autore, nel libro, non manifesta). Il mondo della ricerca scientifica è un campo di battaglia, tutt’altro che allineato e compatto e, quindi, risulta pericoloso affidare i destini di un popolo sentendo solo alcune campane della comunità scientifica stessa e ignorandone altre di pari dignità accademica. Per di più, Lévy, facendo appello alle diverse lezioni della Storia in tal senso,  afferma che “quando la volontà di curare diventa il paradigma dell’azione politica’ gli effetti possono essere spaventosamente perversi” (p. 28).
Pungente il filosofo francese è anche nei confronti di quelli che hanno pensato che il virus avesse una virtù nascosta: farci scoprire un mondo finalmente senza uomo, con una natura libera di manifestare se stessa e le sue meraviglie e che si prende la sua vendetta. Ha ragione, Lévy. Li abbiamo sentiti un po’ tutti quelli che hanno dato al virus quasi una personalità e una missione, dimenticandosi che “a differenza di un microbo, che etimologicamente significa ‘piccola vita’, il virus è un ‘veleno’, non è né vivo né morto (…) e quindi deve la sua esistenza solo agli scienziati, cioè agli umani, che lo hanno, nominandolo, tirato fuori dal nulla” (p. 39).
Dinanzi a tutto questo bisognava opporsi – e in larga parte non lo si è fatto – con due principi. Il primo è politico e doveva consistere nel “fare il conto, per quanto possibile, delle vite che si salvavano e quelle che si mettevano a rischio salvando il mondo (…) soppesare il costo in vite umane dell’ondata virale da un lato e dall’altro il costo della glaciazione indotta da quel coma autoinflitto sulla quasi totalità del pianeta, trasformatosi in laboratorio di un’esperienza politica radicale” (pp. 47-48). Il secondo è metafisico e consente a Lévy di andare al cuore della questione. L’errore che si è fatto, in tal senso, è stato duplice: dare parvenza e senso razionale, in primo luogo, a quel fuori-senso e a quell’indicibile sofferenza che è propria dell’uomo, alimentando, così, “una delle fonti, nel migliore dei casi, della psicosi, nel peggiore dei casi del totalitarismo” (p. 50); in secondo luogo, “considerare alla stregua di malattie questo residuo della vita dell’uomo che sono la morte e il male e pretendere di curare l’umanità da queste malattie” (ibidem).
Ciò – e, lo ammetto, mai parole suonano più balsamiche alle orecchie di scrive queste brevi note – ha comportato il configurarsi di un ‘oscurantismo dal volto scientistico’.
Un paradosso, uno scherzo della Storia, se vogliamo, davanti al quale, per Lévy, bisogna ricordarsi che i virus, appunto, sono stupidi, ciechi e non hanno alcuna ‘lezione sociale’ o ‘giudizio finale’ da darci. Essi sono, invece “come insegna l’epistemologia postbachelardiana [già, l’epistemologia, la vera grande assente dallo scenario politico e sociale degli ultimi mesi, nda] uno squilibrio nella combinatoria di organi e patologie che rende un soggetto singolare” (p. 51). Stando così le cose, “i registi del grande Spettacolo della guerra al virus, i nuovi dottor Purgone che promettono, non solo di contenerlo, ma di sradicarlo dalla società, dovrebbero togliersi di torno” (pp. 51-52). È l’attacco ai virologi-soloni, a personaggi che hanno imperversato come star nei principali canali televisivi, presentandosi per di più come ‘la voce della Scienza’, e a cui la fascia medio-alta della popolazione, in nome di tale potente presentazione, si è consegnata e si consegna tutt’oggi acriticamente, lasciando che suggeriscano ai governi come riaprire le scuole, come festeggiare una vittoria sportiva, come salutare parenti e amici, come e quanto fare l’amore (ho letto di un virologo che consiglia di fare sesso non più di 15 minuti per evitare il contagio…), come vivere, insomma. Una follia, come recita il titolo del libro di Lévy, il quale, in proposito, afferma: “a tutti loro, a chi vive nella rendita dei drammi e della morte, a quei biolatri ventriloqui che hanno fatto parlare il Covid come fosse la RAI, o il Topo Gigio di un tempo, ai taumaturghi che celebravano il loro bel virus come Dante la sua beatrice e il cui catechismo da bar a malapena nascondeva la poca importanza che davano agli uomini veri e al loro dolore, ai loquaci invadenti il cui bigottismo positivista ha finito, certi giorni, per coprire le parole del personale sanitario, a tutti loro bruciavo dal desiderio di dire: ‘state zitti! Per favore, zitti! L’epidemia, prima o poi, sarà messa sotto controllo. Spero che quel giorno avremo dimenticato lo stridio della loro voce” (pp. 52-53).
Uguale rabbia  Lévy mostra nei confronti di coloro che hanno addirittura esaltato il lockdown come una felice occasione per stare con se stessi, per ‘tornare all’essenziale’, dimenticando che l’uomo, come insegna Aristotele è – per essenza, appunto – un animale politico; ma dimenticando anche Cartesio e il suo considerare la stufa e il rifugio solo un momento che prelude a un necessario ritorno nel mondo, Husserl e l’importanza che egli dà all’abitare il mondo, Sartre e la sua critica all’io che si riduce a se stesso. Per non parlare di Levinas, ovviamente, che ci ricorda come il sé è tale solo nell’incontro con l’altro, mentre la sanitizzazione – col distanziamento fisico, l’uso delle mascherine, il non dare la mano, il certificare chi è congiunto e chi no – ha negato l’etica del volto, se non la stessa etica in generale.
Così come negato è stato tutto quel prezioso retroterra della cultura ebraica che individua nell’uscita da sé e nell’incontro con l’altro il senso ultimo della ‘profezia’. La sapienza talmudica è del resto sempre presente nelle pagine di Lévy. Ne è un’ulteriore testimonianza, ad esempio, il riferimento al rabbino Rashi, secondo cui ogni medico “commette errori e abusa del suo potere; il fatto che sia ‘il migliore’ lo rende ancora più imperdonabile – per questo all’inferno” (p. 72). All’inferno in che senso, dirà qualcuno? Nel senso che, come ricorda il Maharal di Praga, il ‘bravo’ medico diventa esperto, sempre più esperto di un corpo come corpo in sé, slegato dallo spirito che lo ha illuminato, dimentico del fatto che un corpo, visto nella sua cruda organicità è, appunto, l’inferno: “l’inferno siete voi, sono io, siamo noi – ma in quanto persone che sono chiuse nel proprio corpo, ridotte alla  nostra vita di corpi e che, sotto il dominio del potere medico o del potere in generale  che si appropria del potere medico, o della nostra stessa sottomissione a entrambi, ci sottomettiamo a esso” (p. 74). “Tutto, allora – continua Lévy – si è chiarito. Il disagio che mi aveva ispirato, fin dal primo momento, la nostra sorprendente docilità a all’ordine sanitario che avanza e alla sua reclusione dei corpi” (ibidem).
La società ha mostrato drammaticamente il suo volto desacralizzato, persino nelle persone e nei luoghi che di questa sacralità dovrebbero essere i massimi interpreti. Si pensi alle chiese chiuse al culto o al papa che fa la sua via crucis in una piazza deserta, dimentico del Cristo che bacia il lebbroso (una scena che oggi costerebbe a Gesù una segnalazione ai vigili urbani…). Del resto, anche chi scrive ricorda il forte disagio provato durante una messa a Messina, poco prima del lockdown, in cui il sacerdote invitava scambiarsi il segno di pace, sì, ma ‘con moderazione…’ . Un atteggiamento che si pone in linea con le sepolture ridotte alla loro forma più semplice, con i corpi considerati alla stregua di pacchi postali, in un gesto di impazienza profilattica, o magari mostrati dentro i camion dell’esercito che li portano via, giusto per incutere ulteriore paura.
Un orrore, per molti versi. Così come orribile è stato il dibattito sul tracciamento dei contagiati, anzi, degli ‘infetti’, con l’essere pronti, in molti, a consegnare i propri dati quasi ignorando l’uso che se ne può fare; anche se qua, ricorda Lévy, non sono mancate per fortuna menti salde che hanno ricordato come “è sempre più facile sospendere una libertà che ripristinarla” (p. 81). Consolatorio, certo. Ma non abbastanza per farci dimenticare sindaci che chiamano alla delazione, manifesti che recitano “il tuo vicino può essere positivo; sorveglialo e, all’occorrenza, denuncialo”, o che il 72% degli italiani “sono favorevoli alla denuncia dei vicini e vedono in questo una prova di patriottismo in questi tempi di lotta al virus” (pp. 81-82).
La difesa della vita a tutti i costi, insomma. ”Ma una vita nuda. Una vita esangue, quasi nulla, come dice Giorgio Agamben. Una vita terrorizzata da se stessa e rintanata nella sua tana kafkiana trasformata in colonia penale” (p. 83). Ed è così che si è verificata una rottura con tutte quelle saggezze del mondo che per secoli hanno giustamente insegnato che “la vita non è vita se è solo vita…” (p. 84), preparando forse quella fine della Storia di cui Alexander Kojève ha detto che l’ultima parola sarebbe stata l’animalizzazione dell’uomo. Ossia il suo ridursi a mera corporeità.
Dopo aver sottolineato come i media abbiano volutamente dimenticato tutte le storture che continuavano e continuano ad accadere nel mondo, impegnati strenuamente nella narrazione mediatica del virus, Lévy ci consegna, nelle ultime dieci pagine, una serie di moniti che suonano come quella che potrebbe/dovrebbe essere l’eredità di ciò che abbiamo vissuto negli ultimi mesi: ossia difendersi dai nemici della libertà. A partire dal cinese signor Xi, che ha portato avanti le tre uniche lotte che, per una maoista, hanno valore. La lotta per il controllo dei nomi (non Sars-cov2 – che ricordava troppo la Sars cinese del 2003, ma Covid 19), quella per il controllo delle storie da raccontare e quella della diplomazia armata per inviare segnali a chi non avesse ancora capito che la globalizzazione del XXI secolo sarà cinese o non sarà. “Con, in più, l’astuzia dello stratega che ha inventato il modello di risposta (il lockdown), ma sceglie il momento in cui l’avversario lo adotta per liberarsene (sopprimendo il lockdown) e ripartire” (p. 102). Uno spianare la strada a quella “via della Seta”, insomma, cui l’Italia (guarda caso il Paese che ha seguito in modo più pedissequo il modello terapeutico e profilattico cinese) aveva già aderito in modo convinto.
Ed è così che, per concludere, è stato occultato o fortemente squilibrato nei suoi risvolti semantici, in pochi mesi, il duplice significato della parola latina mundus. Il primo è quello di mondo reale: “quello di una generazione, la mia, che è stata educata nella convinzione che (…) bisogna fare di tutto per evitare, politicamente, praticamente, attivamente, quasi manualmente, per fare in modo che quello che non vogliamo si ripeta mai più, non si ripeta mai più (…). Menti cupe ma impegnate che avevano affrontato la Bestia a mani nude (…) E questi erano, ai nostri occhi, i più belli fra gli uomini, perché combinavano la presenza di fronte al mondo e di fronte alla parola, l’arte del combattente e l’arte del poeta [quale mirabile sintesi… nda]. È con loro che ci siamo interessati al Biafra, ai boat peolpe vietnamiti, al Bangladesh (…). È alla loro scuola che sono stati inventati i ‘diritti umani’ (pp. 104-105).
L’altro significato è quello di mundus come ordinato e pulito. Immacolato e sanitizzato. Cosmos in greco, cosmesi in italiano. Il nome di un mondo indifferente alla sua parte maledetta, “dimentico che esiste la sporcizia e che nostro compito come uomini affrontarla”(p. 105).
Lévy non lo scrive, pur evocando correttamente Nietzsche in altri luoghi del testo, ma si tratta, in fondo, della disputa tra apollineo e dionisiaco e di come il nascondimento e la mortificazione di quest’ultimo, per il filosofo tedesco, diano inizio alla decadenza della civiltà occidentale. Un mondo quindi, quello ‘sanificato’, “vecchio come il tempo, ma che con il Coronavirus ha recuperato reputazione [e in cui] gli uomini che prendono l’aereo per fare un’inchiesta su ciò che accade nel golfo del Bengala sono assassini del pianeta (…). E quando tornano cosa trovano? Un mondo dove regnano i tecnici della ventilazione, i sorveglianti dell’emergenza generale, i delegati all’agonia” (pp. 105-106).
E Lévy conclude con alcune parole che sottoscrivo integralmente: “Questa è la lezione del virus. Questa è la ragione della mia rabbia. Ed è per questo che dobbiamo resistere, a qualsiasi costo, a questo vento di follia che soffia sul mondo” (p. 107).




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