Durante la visione dell'ottimo docufilm "Ennio" di Giuseppe Tornatore, ma soprattutto al termine di essa, mi accompagnano tre cose:
- Il tremore delle labbra di Morricone quando - e capita spesso - racconta momenti particolarmente significativi della sua vita, professionale e non. Un tremore senile, diranno i più cinici. Forse, ma non solo; il tremore di chi la musica la vive da dentro e di chi sente il suono come un prolungamento del pensiero e del sentimento.
- Il travaglio di un compositore che ha saputo convivere con l'ostracismo dell'accademia e dell'intellighenzia compositiva nazionale e internazionale, che, negli anni '60-'70, lo accusava di prostituire il suo talento per un genere musicale minore, quando non esclusivamente commerciale. Un travaglio vincente, perché Morricone è stato, anzi, un artefice e un esempio luminoso di quella contaminazione tra generi e della ricerca di una immediatezza espressiva che oggi vengono quasi unanimemente riconosciute come le caratteristiche principali della musica contemporanea. Con buona pace di chi ancora intende percorrere una direzione ostinata e contraria.
Emblema di tale tematica è il rapporto col maestro Goffredo Petrassi, cui Tornatore dedica giustamente un certo spazio, ma anche con i colleghi che accompagnarono Morricone nei sui esordi sperimentali, come Boris Porena.
- La capacità - che chi ama le sue musiche conosce bene - di un grande artigiano dell'emozione in immagine. Perché se è vero che le colonne sonore di Morricone, per sua stessa ammissione, possono vivere autonomamente, sganciate dal film per cui sono state composte, è indubbio come esse siano sapientemente legate al vissuto dei protagonisti, e alla espressività della trama e delle vicende narrate, in modo magistrale.
Emozione, travaglio, espressività. Tre elementi fusi armonicamente in un marchio di fabbrica che ha segnato la Storia della musica per cinema in modo indelebile.