martedì 21 gennaio 2020

Un passo indietro





Non mi va di esprimere considerazioni sulla polemica nata dalle dichiarazioni di Amadeus in sede di presentazione del prossimo festival di Sanremo. Mi riferisco a quanto detto a proposito della compagna di Valentino Rossi, scelta come una delle presentatrici della kermesse, che, a dire del direttore artistico, sarebbe da apprezzare perché, ancorché bella, sa stare un passo indietro rispetto a quel grande uomo (sic) del marito. Si tratta di parole che si commentano da sole, figlie della pochezza culturale del personaggio che le pronuncia, ma anche – e questo è ovviamente più significativo, come in molti hanno giustamente fatto notare – di un modello culturale e sociologico purtroppo ancora abbastanza radicato nel nostro Paese. 
Gli esempi che potremmo fare sono tanti. Ne scelgo uno per il quale è necessario fare anche noi un passo indietro. Anzi, novantatré. Tanti quanti gli anni che ci separano dal 20 gennaio del 1927. Quel giorno, il Governo fascista interviene sui salari delle donne riducendoli alla metà rispetto alle retribuzioni degli uomini. Non era un caso, ovviamente. A dispetto di quanto sostenuto nel socialisteggiante“Programma di San Sepolcro” (1919), in cui si chiedeva esplicitamente il voto per le donne, la successiva cristallizzazione dell’ideologia fascista relegò la donna ad angelo del focolare domestico. Un passo indietro, ma anche due, dietro l’uomo, appunto
Del resto, come ricorda la storica Ilaria Romeo – responsabile dell’Archivio Storico Nazionale della CGIL - Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia (1938) scriveva: “La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito […] La conseguenza dell’emancipazione culturale – anche nella cultura universitaria – porta a che sia impossibile che le idee acquisite permangano se la donna non trova un marito assai più colto di lei . […] deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l’uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici […] Il lavoro femminile […] crea nel contempo due danni: la «mascolinizzazione» della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito […]; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.
Lo stesso Benito Mussolini su Il Popolo d’Italia del 31 agosto 1934, secondo quanto ci ricorda ancora Ilaria Romeo, affermava chiaramente: “L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale”.
Insomma, la donna deve stare a casa. E questo contribuirà al bene della Patria. Sempre Romeo sottolinea, in un articolo apparso ieri on line su fortebracciopress, che la prima, sostanziale offensiva nei confronti dei diritti femminili si ebbe nel campo dell’insegnamento. Con il Regio Decreto 2480 del 9 dicembre 1926, infatti, “le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto (già il Regio Decreto 1054 del 6 maggio – Riforma Gentile –  vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie.  Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare)”.
Un’altra legge del 1934 “limiterà notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.”
Fino ad arrivare al Regio Decreto n. 989/1939, che “preciserà addirittura quali impieghi statali potessero essere alle donne assegnati: servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca. L’articolo 4 della stessa legge, suggerirà altri impieghi “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda”.
 Dice: ma da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Sicuramente. Ma certe cose sono dure a morire. E la cronaca ce ne offre quotidianamente la triste conferma.

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