sabato 19 dicembre 2020

I nostri figli al tempo del coronavirus

 


È molto chiaro Massimo Ammaniti nel suo E poi, i bambini. I nostri figli al tempo del coronavirus (Solferino, Milano 2020).  Una pubblicazione che si apre affermando che la scarsa attenzione nei confronti dei più piccoli, in Italia, non è una novità portata dal virus:

"La rimozione dei bisogni dei bambini non è una novità, purtroppo […]. Va anche aggiunto che nella nostra società ogni anno si riduce il numero di nascite, per cui assistiamo sul piano demografico a una piramide capovolta, in cui gli anziani – che si trovano alla base – sono molto più numerosi dei bambini. E questa riduzione sociale del peso dell’infanzia contrasta con l’atteggiamento dei genitori che vezzeggiano i figli e spesso li viziano" (pp. 11-12)

Dunque per Ammaniti (psicoanalista, professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo presso la facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università di Roma e membro della International Psychoanalytical Association) la scarsa attenzione riservata ai più piccoli è il frutto di un processo (come del resto noterà qualche mese dopo anche il pedagogista Daniele Novara). Un processo, per molti versi, tipicamente italiano, dal momento che il nostro Paese, alle prese con l’emergenza sanitaria, è stato il primo a chiudere le scuole e l’ultimo a riaprirle, durante la prima ‘ondata’, e che ha continuato a pianificare chiusure e restrizioni per le istituzioni scolastiche anche in seguito; il tutto mentre in quasi tutti gli altri Stati europei, le scuole continuavano a restare aperte, anche a fronte, talora, di una curva epidemiologica più preoccupante di quella che si registrava in Italia. Per non parlare del fatto che persino in Cina, all’inizio dell’epidemia, un gruppo di pediatri pubblicava su “Lancet” un appello in cui si affermava che

"La condizione di restrizione può essere dannosa per la salute mentale e fisica dei bambini e degli adolescenti e può comportare conseguenze durature sul loro sviluppo, con la comparsa di sintomi post-traumatici, perciò quel gruppo di pediatri si rivolge al governo cinese e alle famiglie sollecitandoli a prestare una maggiore attenzione ai problemi dei più piccoli, a favorirne l’attività fisica, a far loro osservare una dieta equilibrata, un sonno regolare, oltre a tutte le misure igieniche del caso" (p. 51).

Interessante è poi quanto afferma Ammaniti a proposito degli adolescenti. Questi, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, hanno spesso reagito alle restrizioni con passività e accettazione diffusa; anche con rassegnazione, talora. In particolare,

"[…] si è verificata fra i ragazzi una strana reazione che definirei “effetto gregge psicologico”: siccome tutti subiscono questa situazione, e quindi anche gli amici e gli altri coetanei non escono o escono eccezionalmente dalla propria abitazione, viene meno la motivazione a farlo, anche perché non si incontrerebbe nessuno. In casa gli adolescenti passano gran parte del tempo chiusi nella loro stanza, da cui escono solo per pranzo e cena. Ma a volte, addirittura, si riempiono il piatto e tornano subito lì." (p. 62).

Se la prima parte della citazione sottolinea uno stato di apatia indotta estremamente pericoloso, il secondo testimonia un processo che chi conosce la psicologia dell’età evolutiva si aspettava accadesse. Gli adolescenti, infatti, vivono il sacrosanto bisogno di autonomia e distacco dalla famiglia tipico della loro età: le restrizioni e l’assenza della scuola – e di tutto il sistema di relazioni che ruota intorno ad essa – ha invece cortocircuitato tale processo. Di conseguenza, pur di sfuggire a un passato di dipendenza dai genitori dal quale intendono – ripeto, giustamente – liberarsi, si rifugiano nella propria stanza, ossia nell’ultimo rifugio in cui cancellare questa regressione.

In ogni caso, quello che essi stanno sperimentando è un terribile senso di perdita. 

Critico, ovviamente, è Ammaniti anche nei confronti della didattica on line, in quanto essa risulta poco efficace e difficile da attuare per la prima fascia scolare e perché, per i ragazzi più grandi, 

"[…] se la lezione è già di per sé poco motivante per molti degli studenti più adulti , quella on line è ancora meno stimolante e più difficile da seguire". (p. 81).

E ciò nonostante gli sforzi di molti docenti, che hanno spesso utilizzato registri comunicativi diversi da quelli tradizionali, magari puntando, opportunamente,  sull’intelligenza emotiva di cui parla Daniel Goleman.

Ovviamente, però, si è trattato – e si tratterà sempre – di misure insufficienti a restituire una sana, autentica relazionalità didattica, che della presenza e dei ‘corpi’, di docenti e alunni, non potrà mai fare a meno.







domenica 6 dicembre 2020

I bambini sono sempre gli ultimi



È un libro prezioso e illuminante, quello di Daniele Novara. Un testo che arriva in un momento storico nel quale l’infanzia e l’adolescenza rischiano seriamente di essere tra i principali ambiti colpiti dagli effetti collaterali dell’emergenza sanitaria. I bambini sono sempre gli ultimi. Come le istituzioni si stanno dimenticando del nostro futuro, (Rizzoli, Milano 2020), si apre affermando chiaramente che "nel nostro Paese i bambini sono stati – ingiustamente – accusati di essere degli «untori»" (p. 9) Un termine vergognoso e vergognosamente abusato dai media – talora anche da alcuni medici – che ha portato quasi subito, tra febbraio e marzo 2020, a chiudere le Scuole; perché, "Se i bambini sono untori bisogna agire. E subito. Chiudendo le scuole di ogni ordine e grado. Sine die. La storia dei «bambini-untori», visti anche un po’ come delle schegge impazzite impossibili da tenere a bada, si incunea profondamente nell’opinione pubblica e nell’informazione, senza essere scardinata dalle ricerche sia scientifiche che empiriche che continuano a essere diramate e che scagionano i piccoli da questa drammatica responsabilità che insinua il dubbio che siano addirittura loro gli artefici dello sterminio degli anziani. A più riprese, si supplicano i nonni di non avvicinarsi ai bambini, di non occuparsene più, perché ne va della loro stessa sopravvivenza. Tutto questo senza uno straccio di prova, ma sulla base del solito drammatico meccanismo del capro espiatorio di manzoniana memoria" (p. 12)

 Le scuole quindi si sono chiuse, ricorda Novara, ma si sono chiuse anche le porte di casa per i più piccoli, mentre i cani, quelli sì, potevano essere tranquillamente portati fuori a passeggiare e fare i bisogni. Una scelta cui il Governo ha poi cercato di porre rimedio, senza peraltro evitare che sindaci e governatori-sceriffi, qua è là nel Paese, impedissero che i genitori uscissero di casa con i figli (per non parlare, nuovamente, del clima di odio che spesso si scatenava dal balcone nei loro confronti). Non è un caso che la pubblicità in televisione, tra marzo e aprile, abbia quasi dimenticato i giocattoli per lasciare spazio ai prodotti per gli amici a quattro zampe. È interessante, però, quello che fa notare Novara a proposito del fatto che a questa deprivazione degli spazi dei bambini, nel nostro Paese, si sia arrivati gradualmente e attraverso un processo che parte più o meno dagli anni Ottanta dello scorso secolo. Un processo che ha visto ad esempio scomparire i ragazzini dalle strade, dai cortili, dagli androni delle scale, dalle pozzanghere… in nome di una via via crescente idea di sicurezza che, invece, si è rivelata nefasta per coloro i quali credeva e crede di proteggere. Una cosa che, per l’autore, avrebbe comportato una "mutazione antropologica narcisistica che spinge all’iperprotezione, alla conservazione dei bambini" (p. 38). 

 Un processo che viene da lontano, dunque, e che passa anche attraverso un sempre minore contatto con la natura e con i rischi ‘salutari’, sul piano della crescita, che esso comporta, o anche attraverso la quasi scomparsa dei gruppi infantili di ‘pari’, che hanno rappresentato per secoli una modalità preziosa di confronto, scambio, negoziazione, sviluppo personale per i bambini. Per non parlare delle politiche sbagliate sulla Scuola, della scarsa attenzione al problema della diminuzione delle nascite, delle disfunzioni crescenti nel rapporto genitore-figli. Novara, insomma, ci descrive un processo di deterioramento nell’attenzione verso i bambini, sempre più dimenticati. Un atteggiamento pericoloso, al quale bisognerebbe rispondere con la consapevolezza che  "Quando un’intera comunità prende sul serio le proprie responsabilità educative, quando investe nella scuola e nell’infanzia, allora sta creando le basi per future generazioni di ragazzi e poi adulti capaci, equilibrati, responsabili. Da qui possono nascere le cittadinanze consapevoli. Non più cittadini semplicemente perché informati riguardo la Costituzione, le leggi, i diritti e i doveri; non più adulti che aderiscono in modo meccanico alle regole sociali oppure ai rituali politici ed elettorali. Ma un nuovo profilo di cittadino, che sa essere competente nelle situazioni critiche, nei conflitti così come nei semplici litigi" (p. 145). 

 E una cosa del genere può avvenire solo se si verifica quello che Novara considera una sorta di patto tra le generazioni, in forza del quale gli adulti di oggi si impegnano per lasciare a chi sarà adulto domani un mondo migliore. È sempre stato così, nel mondo moderno. A mo’ di esempio, l’autore cita l’obiezione di coscienza per il servizio militare, introdotta nel 1972, a più di venticinque anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: un passaggio importante, con cui la generazione che aveva vissuto la tragedia del conflitto dava ai giovani una possibilità che essa non aveva avuto. Tuttavia, "Questo passaggio di consegne intergenealogico inconscio è oggi profondamente inceppato dalla mutazione antropologica narcisistica verificatasi tra gli anni Settanta e Novanta. Lo spirito di sacrificio, che è insito nella prospettiva educativa fra le generazioni, è minacciato dal desiderio narcisistico di assolutezza personale, di autoreferenzialità totale, ovvero dall’idea che il genitore basti assolutamente a se stesso e non abbia bisogno dei figli, e che quindi il suo desiderio nei loro confronti non sia necessario, se non nei termini narcisistici che vorrebbero mantenere i figli all’interno del solco che gli stessi genitori hanno tracciato. (pp. 148-149). 

 La scarsa attenzione nei confronti dei più piccoli e delle nuove generazioni registrata durante l’emergenza sanitaria, dunque, è il frutto di un percorso sbagliato iniziato almeno tre decenni fa e che ha trovato, nell’epidemia, un terreno fertile per germogliare ulteriormente, e drammaticamente. È questo che ha permesso e continua a permettere che tantissimi si siano schierati, e si schierino ancora "contro ogni forma di riapertura, senza proporre soluzioni alternative accettabili. La didattica a distanza, ovvero la scuola dietro a un monitor, non consentendo la formazione di una vera comunità di apprendimento che permetta il confronto in carne e ossa (l’assenza dei corpi impedisce quell’osmosi sociale alla base di tutti gli apprendimenti scolastici), non può essere la soluzione ai tanti dilemmi sulla scuola, vista sempre, negli ultimi decenni, come fonte non di crescita e sviluppo sociale, ma di spreco di risorse economiche. Tant’è che, ogni volta che era necessario tagliare qualcosa nel nostro Paese, ecco che si cercava di farlo proprio nell’ambiente scolastico, ritrovandosi poi con una spesa a favore dell’istruzione tra le più basse, non solo dei Paesi OCSE, ma addirittura del mondo […]. Per comprendere le conseguenze della decisione di non riaprire le scuole, basti pensare ai piccoli dai 3 ai 6 anni, che hanno bisogno della Scuola dell’Infanzia in maniera indispensabile perché è lì che si gioca la loro possibilità di crearsi un primo attaccamento e un primo imprinting sociale: stando con gli altri compagni, vivendo le prime frustrazioni sociali all’interno di un contesto educativo gestito da personale preparato" (p. 19). 

L’augurio è che voci come quella di Novara siano sempre più ascoltate, per questa e per altre emergenze sanitarie che dovessero arrivare in futuro. E anche fuori da esse.

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