sabato 25 aprile 2020

Liberi di scegliere














“Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione”, affermava Michel Foucault. Questa frase mi ha sempre colpito, profondamente.  Essa appare nell'opera Nietzsche, la genealogia, la storia, tradotta in Microfisica del potere, nel 1977 (ma è probabile risalga al 1971). Un testo che, com’è noto, orientò molti giovani fuori dalla sinistra extraparlamentare. Ma, al di là del contesto storico, la frase, dicevo, mi ha sempre scosso notevolmente. Perché il sapere, ne sono convinto, serve a comprendere. Me lo ripeto sempre, lo dico continuamente ai miei studenti.  È il monito di Hegel, laddove questi ci ricorda che il compito principale della filosofia è trasformare il noto in conosciuto. Ossia, per fare un esempio dei nostri giorni, rendere conoscenza la marea di notizie che ci inseguono – e talora ci perseguono – ore, quarti e momenti. E ciò perché la notizia, la news, di per sé, non è, appunto, conoscenza: per divenire tale occorro uno sforzo ulteriore, che è quello offerto dalla filosofia.
Ma torniamo a Foucault. Che cosa voleva dirci il filosofo francese con quella provocazione? Molto, moltissimo. Impossibile riassumerlo in queste poche righe. Mi limito, però, a sottolineare uno dei possibili rivoli di riflessione. Quello, cioè, secondo cui la conoscenza ci porta inevitabilmente ad avere una Weltanschauung, una visione del reale. Conseguentemente, tale visione ci porterà ad agire, inevitabilmente, in una direzione piuttosto che in un’altra. Con buona pace di chi, come il pensatore danese Soren Kierkegaard, ci ricorda che la scelta, la categoria del possibile siano fonte di angoscia per l’essere umano. Certo, la conoscenza accresce anche la complessità del sapere, e questo ci fa prendere coscienza del fatto che la verità non è qualcosa di monolitico e statico: essa è plurale, prospettica, in divenire: storica, in una parola. Tuttavia, esistono momenti, contesti, situazioni in cui siamo chiamati a prendere posizione. E a farlo con chiarezza. Senza arroganza magari, ma in modo netto. Diversamente, del nostro sapere non ne è nulla.
Ora, i partigiani che lottarono per la libertà, per quella liberazione dal nazifascismo che oggi celebriamo, presero posizione. E lo fecero in modo deciso, assumendosi la responsabilità di una missione e di un rischio enormi, più grandi delle loro stesse vite. Ma era inevitabile per le loro coscienze, per il loro sapere, per la loro visione del reale. Grazie alla loro presa di posizione, oggi, abbiamo la libertà. La libertà di accrescere il nostro sapere e di prendere anche noi posizione, rispettando quelle altrui. Ed è un bene inestimabile. Un bene, però, che non è mai raggiunto una volta per tutte ma che va sempre difeso e riconquistato, ogniqualvolta esso venga messo anche minimamente in discussione.  In ciò, credo, risiede uno dei valori e degli insegnamenti più alti della Resistenza e del 25 aprile. Certo, la complessità cui accennavo, fa sì che non si debba dimenticare come anche in chi lottava dall’altra parte ci fosse qualcuno (in mezzo a una maggioranza che faceva della sopraffazione e della violenza la sua ragion d’essere) che credeva sinceramente in un ideale: rimediare a un tradimento nei confronti dell’alleato tedesco, ad esempio, o più semplicemente, rispettare la legge delle Stato (la Repubblica Sociale Italiana) di cui era formalmente cittadino; e fa sì, la complessità, che non si debbano nemmeno dimenticare le violenze talora commesse anche dai partigiani. Fu una guerra civile: terribile come tutte le guerre civili. Ma, al di là di questo, una scelta di campo, in quel momento, si doveva fare, e i protagonisti della Resistenza la fecero. Come la fecero gli antifascisti all’inizio e durante il Ventennio, quando la stragrande maggioranza della popolazione italiana osannava il fascismo e le sue gesta. Lo fecero, pagando con la vita, con l’esilio o con la discriminazione la loro presa di posizione.
Ecco, credo che uno dei tanti insegnamenti che il 25 aprile ci può dare, oggi, è quello del valore insito nel prendere posizione. E nel farlo quando la nostra visione della realtà ce lo suggerisce, o, il che sarebbe meglio, ce lo impone. Troppo spesso, invece, assistiamo all’ignavia, al distacco scettico, all’inazione, anche dinanzi a fenomeni e accadimenti che dovrebbero scuotere fortemente le nostre coscienze. Succede nelle vicende politiche, ad esempio, locali e nazionali. Basti pensare alla criminale superficialità con la quale vengono accettati, quando non giulivamente lodati, i comportamenti di sindaci, amministratori e governatori ‘sceriffi’. O alla deprimente mancanza di riflessione critica con cui la gran parte della popolazione si è consegnata, in questi mesi, a uno scientismo veteropositivista (non alla scienza, quella vera) da un lato, e alla fobocrazia, al potere fondato sulla paura del virus (e, quindi, un potere le cui scelte vengono accettate acriticamente), dall’altro. Una cosa che avrebbe fatto inorridire Foucault. Una cosa che, ne sono certo, gli avrebbe fatto prendere posizione.

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