Vorrei fare un’ulteriore riflessione a proposito delle Cultural Wars sulle identità di genere e su tutto ciò che circonda l’universo Woke e buona parte dell’attuale configurazione del mondo liberal-progressista.
Una riflessione che origina dal convincimento - che non è solo mio, ovviamente (anche se fa parte della mia percezione da anni, come sanno coloro che un minimo seguono le mie esternazioni, qui e altrove) ma che ha solidi studi autorevoli alla base – dal convincimento, dicevo, che la lotta per i diritti civili, sacrosanta nella sua formulazione iniziale e genuina, sia ormai sempre più sganciata da quella per i diritti sociali. Un fenomeno pericoloso, del quale la narrazione dominante, ovviamente, evita di parlare. Ovviamente, perché il messaggio deve essere di altro tipo. Non ci deve essere nulla che induca anche solo minimamente a pensare che dietro battaglie presentate con la patina della correctness si celi una mistificazione del Capitalismo, che ha da anni de-economizzato quelle che un tempo erano realmente le lotte della classi subalterne, sfruttate ed oppresse, per inglobarle all’interno di controversie che – muovendosi prevalentemente su un piano simbolico - soddisfino l’esigenza stessa di lotta di chi si identifica nella ‘sinistra’ e nel progressismo, senza, di fatto, toccare anche solo minimamente i rapporti di forza e le dinamiche di sfruttamento economico e sociale di cui il Capitalismo stesso continua ad essere protagonista indiscusso.
Ora, potremmo fare molti esempi, in tal senso. Ce n’è uno in particolare, tuttavia, che rende perfettamente l’idea, a mio avviso.
Sto parlando della maternità surrogata, altrimenti detta GPA o, più volgarmente, utero in affitto.
Un esempio a mio avviso pertinente di come un presunto diritto alla maternità-paternità di coppie che per motivi vari non possono avere figli (coppie eterosessuali o omosessuali), autorizzi la possibilità di rivolgersi ad una donna che porti avanti una gravidanza per conto terzi, lasciando poi il figlio, dopo il parto, alla coppia di cui sopra. Al di là dell’aspetto giuridico (in Italia ad esempio, la legge non lo consente), che mi interessa poco, per me si tratta di un fenomeno di mercificazione del corpo. Ed è, appunto, un chiaro esempio di come la presunta difesa di un altrettanto presunto diritto (quello alla genitorialità) trovi assolutamente legittimo che ciò avvenga attraverso lo sfruttamento di soggetti subalterni dal punto di vista sociale ed economico. Perché, chiaramente, chi porta avanti una gravidanza per conto terzi lo fa per soldi, non ci prendiamo in giro. E lo fa a beneficio di chi si trova, invece, in una posizione di superiorità sociale ed economica. E non entro, in questa sede, nel complesso gioco di dinamiche relative alla percezione e al sentire di chi sviluppa legami con la creatura che porta in grembo…). E ciò senza preoccuparsi minimamente di rimuovere, invece, gli ostacoli che impediscono a quei soggetti in una condizione di subalternità economico-sociale di uscire da tale condizione. In quel momento, il loro ruolo di semplici incubatrici viene accettato; anzi, considerato quasi un veicolo di redenzione.
Che poi ciò vada nella direzione dell’assecondare sentimenti buoni e puri, quali la maternità, la paternità, la voglia di donare amore ad una nuova vita, non può bastare (come molti pretendono, all’insegna dell’americanissimo “you don’t understand what I fell”, atteggiamento-madre di molte cultural wars) a giustificare quello che resta un abominio etico, se si vuole, e umano.
Sono ben accette critiche costruttive, si intende. Basta che non si ispirino a un semplicistico “ognuno del suo corpo fa ciò che vuole, in fondo c’è gente che si vende un rene” (sì, ho sentito anche questa…).